Tradizioni popolari trevigiane di quaresima: BRUSAR LA VECIA – testo di Emanuele Bellò e Franco Crespan.
LE ORIGINI
La tradizione di bruciare o di annegare nell’acqua un fantoccio di forma umana sul finire dell’inverno, ha radici profonde e remotissime che ci riportano alla preistoria. Secondo gli studiosi, questa cerimonia era un rituale magico per scacciare la cattiva stagione e invocare l’arrivo della primavera.
Si trattava di un rito di fertilità e di fecondità, praticato dalla nostre popolazione già nel Paleolitico e nel Neolitico, che offrivano alle divinità della natura dei veri sacrifici, anche umani, sostituiti in seguito da fantocci …
Successivamente, questo culto ha trovato la sua collocazione temporale all’inizio dell’anno, quando nelle regioni a clima mediterraneo la bella stagione arriva subito dopo le prime brine invernali. Per molti popoli antichi, infatti, l’anno cominciava nel mese di marzo ed anche la Repubblica di San Marco apriva l’anno civile il primo di questo mese, usanza conosciuta in tutta Europa come “calendario more veneto“, imitato anche da altri stati.
I Romani avevano anche un idolo a forma di donna, “Anna Perennia“, una statua che il 15 marzo veniva portata in processione e poi gettata nel Tevere come rito propiziatorio beneaugurante per la popolazione, per iniziare bene (annare) e concludere felicemente (per-annare) l’anno.
Per i Latini la statua di Anna Perennia aveva la stessa funzione del capro espiatorio degli Ebrei, un simbolo della malvagità umana, che prende su di sè le colpe della comunità, espiando con la sua morte le colpe di tutti.
La “vecia” rappresenta la miseria della stagione passata, la fame, le disgrazie, le malattie, le ingiustizie subite, il rifiuto di un passato negativo, l’augurio d un futuro promettente per la campagna e per la vita.
Nei paesi balcanici, ancora oggi, un fantoccio coperto di foglie viene lanciato in acqua dai bambini del paese per invocare le piogge di primavera che fanno crescere il foraggio per il bestiame.
Col trionfo del Cristianesimo la tradizione della festa della “vecia” si è confusa con quella della “Mezza Quaresima”, quando la Chiesa, per smorzare i rigori e l’austerità del periodo penitenziale, permette una pausa di ristoro con la domenica denominata “Laetare”, che vede tornare in chiesa i fiori, la voce dell’organo ed il colore rosa dei paramenti, al posto del viola; per un giorno di giubilo in vista della festa di Pasqua.
E’ stato probabilmente nel Medioevo che il popolo ha pensato di resuscitare il Carnevale nel bel mezzo della Quaresima e l’antichissimo fantoccio pagano, perso il suo significato vegetativo, è diventato la vittima dello sfogo popolare per il digiuno e l’astinenza, per la primavera che ancora non arrivava, per il granaio e la “tesa” vuoti, per l’orto e il pollaio che non davano nulla, per il padrone che non si accontentava mai.
Il fuoco e l’acqua non erano i soli modi di punire la “vecia”: in Romagna, per esempio, si tiene in diverse città il rito della “segavecia”, che consiste nel portare in piazza una finta vecchia imbottita di fiori secchi e dolci al posto della paglia o della stoppa e segarla in due per far uscire il contenuto , che viene preso dai presenti, come si può vedere al cinema in apertura del film “Amarcord” di Fellini. Anche la data dell’esecuzione della “vecia” può variare dal giovedì di metà Quaresima in Alto Adige o alla notte di San Giuseppe in Emilia, ma è sempre prima che arrivi la primavera in tutta l’area di diffusione del rito, che comprende pressochè tutta l’Europa, dal Portogallo ai paesi di lingua tedesca e a quelli dicultura slava.
LA STORIA
Nonostante che la tradizione di “brusar la vecia (1)” di Mezza Quaresima sia sempre stata viva nei secoli, soprattutto in campagna, per avere informazioni attendibili da fonte scritta bisogna arrivare al periodo a cavallo tra il settecento e ottocento quando Napoleone ordinò la prima vera inchiesta etnografica sugli usi e costumi dei vari dipartimenti del Regno Italico , che comprendeva anche il Veneto. L’usanza è documentata anche nel periodo della dominazione austro-ungarica, anche se sopravvive come semplice falò, senza il processo che poteva dar voce al malcontento popolare e a rivendicazioni di tipo patriottico. Con l’unificazione dell’ Italia la “vecia” di Mezza Quaresima torna in uso e le cronache riportano che la tradizione fu introdotta nella città di Treviso sotto l’amministrazione del sindaco Giambattista Mandruzzato (1881-1884) per opera del conte Tito Paja, erede spirituale del conte Tita Rinaldi, famoso per le sue stramberie (mattane). La prima edizione del processo burlesco ebbe luogo in Piazza delle Erbe, diventata in seguito Piazza Crispi o anche Hesperia, con la collaborazione di una macchietta dell’epoca, il gobbo Perale, proprietario di una cartoleria e notissimo per la sua lingua tagliente che non risparmiava nessuno; tanto che è diventato un proverbiale modo di dire “avere la lingua che taglia come il gobbo Perale”. All’epoca, prima di salire sul rogo, la vecchia veniva riempita di caramelle, confetti, arachidi, arance, mandorlato, dolcetti e frutta secca; veniva tagliata a metà perché il contenuto del suo ventre procurasse un po’ di divertimento (2) ai bambini e appena finito il rogo si dava lettura al testamento.
Dopo la prima guerra mondiale la tradizione di ardere la “vecia” perse la sua importanza perché il processo burlesco non era molto gradito alle autorità; ma l’usanza si è conservata grazie alle osterie di periferia e soprattutto di campagna, che tenevano viva la manifestazione per attirare clienti con una attrazione che rompeva la monotonia dell’inverno e invogliava la gente ad uscire di casa.
In città l’osteria che ha mantenuto questa tradizione fino agli anni 40 e 50 è stata quella di Turchetto, che era una delle poche ad avere lo spazio necessario per bruciare la ”vecia”, dato che c’era lo spazio dei campi da gioco delle bocce e della “borella” (3) della società Montegrappa. Questa osteria si trovava fuori Porta Fra Giocondo, davanti alla fabbrica di Krull, dove la sera del falò si riunivano i 300 e passa operai, che restavano fino a notte fonda bevendo fino ad ubriacarsi. L’osteria Turchetto si distingueva anche perché, diversamente dalle altre, non bruciava la “vecia” bensì il “vecio”: un pupazzo a grandezza naturale, vestito con abiti eleganti e chiassosi, che veniva messo a sedere per tutta la giornata di Mezza Quaresima davanti ad un tavolo con un gran boccale di vino ed un bicchiere perché i clienti potessero bere un bicchiere gratis. Il vecchio era opera di Beppi Gatti che al processo farsesco aveva non solo la funzione dell’ inquisitore ma anche del giudice che pronunciava la fatale sentenza. Altre osterie non organizzavano il processo, ma si limitavano a bruciare la “vecia” con un cartello al collo riportante i capi d’ imputazione. Anche la pira del rogo era formata da poche legne, perche’ erano usate per il riscaldamento, e molte volte si bruciava solo il pupazzo attaccato al palo.
In campagna persisteva la consuetudine di ardere con la “vecia” anche i cai delle ultime potature della vigna per scongiurare le gelate di primavera sulle viti e liberare i campi per i lavori della bella stagione.
Una delle osterie fuori Treviso, più conosciute per la loro ” vecia” è sempre stata quella “da Nea” alle barche di Silea, che offriva ai partecipanti “crostoli” (4) e sardine ai ferri.
Dopo essere caduta nel dimenticatoio per molti anni, anche a causa del coprifuoco e delle ristrettezze del periodo della II guerra mondiale, la manifestazione è stata riportata in vita negli anni 50 da Chechi Zanchetta, un buontempone di Paderno di Ponzano, che organizzava un processo senza pretese in Piazza Giustiniani; ripetuto altre volte e famoso nella memoria popolare per la vena satirica che lo animava.
La vera riscoperta e riproposta di bruciare la “vecia” arriva però solo nel 1966, quando il nucleo fondatore del futuro Gruppo Folcloristico Trevigiano organizza il processo, con l’aiuto dei pompieri, in riva al Sile, di fronte alla sede dei Canottieri Sile. Fra gli organizzatori c’ è anche il poeta dialettale Checo Smeazzetto di Santa Maria del Rovere, che trova l’ispirazione per comporre una bella poesia in dialetto sulla triste sorte della “vecia” condannata ingiustamente. L’anno seguente la manifestazione viene spostata in piazza del Grano, dove resta fino ai primi anni 70. In quelle prime edizioni collabora attivamente anche la Tarvisium Pro Loco e gli amici della “Campata Cavalcavia” , che figurava in prima fila anche nell’ organizzazione del carnevale trevisano con i carri mascherati. In quegli anni la “vecia” dopo essere stata esposta tutta la giornata al pubblico ludibrio in Piazza dei Signori, veniva portata al luogo di giustizia, scortata da un manipolo di armigeri in costume, su una carretta trainata da asini o muli, che erano messi a disposizione da diversi personaggi dei dintorni di Treviso, come il Moro Teso di Santa Bona, Angelo Carniato di Paderno, Toni Pipa, Pastro e Pivato da Fontane. Negli anni 70 la “vecia” trova una sua collocazione definitiva in riva al Sile, davanti l’osteria al Ponte Dante, come da tradizione e alla manifestazione vi collaborano anche i sub del gruppo Proteus ed il servizio Emergenza radio. Nei primi tempi, aspettando di venir portata al luogo dell’esecuzione, la “vecia” restava agli “arresti domiciliari” nella prigione domestica del Gruppo Folcloristico, l’officina Crespan in Piazzale Burchiellati, con la possibilità di ricevere visite dai curiosi.
L’ultima collocazione del rogo della “vecia” è indovinata per la spettacolarità dell’ evento, sia perché consente una grande visibilità ai presenti dalle due rive del Sile, sia per la sicurezza dal traffico, così la gente può può assistere tranquillamente al rogo, dopo aver ascoltato le varie fasi del processo trasmesso con altoparlanti.
La corte si insedia su un palco allestito in Piazza Garibaldi e tiene il dibattimento davanti alla “vecia “ di cartapesta, abbigliata con vestiti vecchi e bucati, imbottita di paglia e stracci, sospesa sopra le acque con dei cavi di ferro tenuti fermi da una gru; il processo si svolge in piena regola, con la contestazione delle colpe e lo scontro tra accusa e difesa, secondo una procedura elaborata nei secoli passati.
IL RITO
Anche se la tradizione più diffusa vuole che sul rogo finisca una figura di vecchia, in tanti paesi della Marca era previsto che l’accompagnasse tra le fiamme anche un vecchio, ben in anticipo sulle norme della par condicio e delle pari opportunità dei giorni nostri, specialmente nelle località del basso Sile, come Cendon o Casale. A Sant’ Alberto di Zero Branco invece si bruciava solo il vecchio per una forma di cavalleria rustica.
Quando il rogo veniva organizzato dagli osti, era costume mandare in giro per le strade uno “strillone” o banditore privato che annunciava posto, ora e modalità di esecuzione della “vecia” o del” vecio”, che restava in mostra fuori dell’ osteria, come succede ancora oggi a Vascon, dove da quasi mezzo secolo i pupazzi dei “veci”, di grandezza naturale, vengono messi a prendere il sole fuori del bar Amicizia e molta gente va a farsi fotografare insieme.
Nella bassa trevisana l’usanza voleva che gli scolari mettessero sul viso della “vecia” le loro maschere, tenute da parte dopo il martedì grasso, come segno di allegria per la resurrezione del carnevale.
Con la ripresa della tradizione della “vecia” negli anni 60, l’uso del banditore è venuto meno perché al suo posto si utilizzano le epigrafi o annunci mortuari, che vengono affissi nei posti pubblici per notificare alla popolazione tutti i particolari della manifestazione. Le epigrafi sono delle vere e proprie parodie di avvisi funerari: listate a lutto, riportano a grandi caratteri le generalità scherzose della moritura e i capi di imputazione, precisando posto ed ora dell’ evento e infine la data alternativa di svolgimento nel caso di maltempo.
(1) “brusar la vecia”= bruciare la vecchia
(2) “boresso”= quando si ride senza senso, di gusto
(3) “borella”= vecchio gioco della campagna: tre birilli alti un metro, posti a una certa distanza (20-25m) , dovevano venir centrati con una palla di legno lanciata in aria .
(4) “crostoli”= dolci del periodo carnevalesco.A Venezia sono detti “ciacole”, chiacchere.