Come scrivevano i PaleoVeneti e come scrivono i Veneti

COME SCRIVEVANO E COME SCRIVONO I VENETI

L’Europa fu nei millenni e nei secoli passati meta di popoli che emigravano da est a ovest. Tra questi, gli antichi Veneti, quelli che gli studiosi chiamano Paleoveneti (pàlaios, in greco significa infatti ‘antico’); li definiscono così per distinguerli dai Veneti moderni, cioè da noi.

Un gruppo di antichi Veneti, provenendo da est, si stabilì nel nostro territorio circa 1000 anni prima di Cristo, cioè circa 3000 anni fa. Il Nord Italia nel primo millennio prima di Cristo era abitato, nella parte centrale e occidentale, prevalentemente da popolazioni celtiche (i famosi Galli), mentre la parte orientale era occupata, oltre che dai Paleoveneti, dai cosiddetti Reti (pressappoco dalle Prealpi venete in su). Tracce di insediamenti paleoveneti sono state rilevate in una vasta zona che va dall’Adige al Tagliamento. La località dove è stato trovato il maggior numero di reperti archeologici è quella di Este, a sud di Padova.

La civiltà degli antichi Veneti ebbe autonomia per almeno sette od otto secoli, finché non venne a contatto con la potenza di Roma. Roma, fondata secondo la tradizione nel 753 a. C., da piccolo borgo laziale abitato da pastori e da agricoltori, stava diventando una città sempre più potente e, a poco a poco, estendeva la sua egemonia sull’ Italia centrale e meridionale e quindi su quella settentrionale.

I Veneti vennero a contatto con i Romani circa tre secoli prima di Cristo, ne diventarono fedeli alleati e a questa alleanza si mantennero sempre fedeli, accettandone di fatto la superiorità e il predominio. Nulla ebbero da eccepire, ad esempio, quando i Romani trasferirono nel loro territorio 3000 veterani con le relative famiglie fondando la città di Aquileia (181 a. C., cioè circa 2200 anni fa), né quando, circa 100 anni dopo , fondarono altre colonie nelle zone di Asolo, di Cittadella , di Camposampiero, di Altino…
Insomma al 181 a.C. si fa risalire la fine dell’indipendenza dei nostri progenitori paleoveneti, che divennero a pieno diritto cittadini romani nel 49 a.C., assieme a tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale; nel 42 d.C., infine, venne istituita la X Regio Venetia ed Histria, una maxi-regione corrispondente, grosso modo, ai territori delle Tre Venezie e dell’Istria.
Tale fu l’integrazione che a poco a poco i Veneti abbandonarono l’antica parlata e pacificamente adottarono il latino, cioè la lingua di chi deteneva il potere politico e culturale.
Il che succede anche da noi, e lo constatiamo giorno per giorno, quando assistiamo al progressivo abbandono del dialetto. Parlando fra noi e alla buona usiamo generalmente il dialetto, sebbene imbastardito con forme e termini italiani, mentre con i bambini è ormai una bestia rara chi lo parla. Anche i poveri nonni, che sono cresciuti a polenta e dialetto e l’italiano lo masticano a fatica come una seconda lingua, si adattano alla nuova situazione.

Che lingua era quella dei Paleoveneti?

Era una lingua di ceppo indoeuropeo, lo stesso a cui appartengono alcune lingue dell’India, le lingue germaniche (tedesco, inglese, danese, svedese, norvegese, ecc.), quelle celtiche (gallese, scozzese, irlandese, ecc), quelle slave (russo, bulgaro, polacco, ecc.), l’albanese, il greco, l’ iranico. Dello stesso ceppo è anche il latino, da cui sono derivate le lingue cosiddette neolatine o romanze: il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno e naturalmente l’italiano con i suoi dialetti, compreso il nostro.

Come siamo arrivati a conoscere quanto sappiamo della parlata dei nostri antenati Veneti?

Dalle iscrizioni riportate su lamine di bronzo e altri oggetti di metallo, su manufatti di ceramica e, più tardi , da quelle scolpite su pietra (iscrizioni lapidee).
Quelle a nostra disposizione sono ormai varie centinaia e sono custodite, assieme agli altri reperti di origine venetica, in vari musei della nostra regione, di cui Il più importante è quello di Este. Solo nel secolo appena passato esse sono state studiate e decifrate sistematicamente, ad opera soprattutto di studiosi dell’Università di Padova del calibro di G. B. Pellegrini e A. L. Prosdocimi. Le iscrizioni, assieme agli altri reperti archeologici, ci hanno fatto conoscere molti aspetti della vita e della organizzazione sociale dei nostri antenati Veneti.

Come scrivevano questi benedetti Veneti?

Osserviamo la scritta qui sotto riportata, che era incisa su una coppa di bronzo del IV secolo a.C. , attualmente custodita nel Museo Nazionale di Este.

Come si può vedere, la scrittura va da destra a sinistra, non va a caporiga, ma gira verso l’alto continuando da sinistra verso destra senza interruzioni o intervalli fra una parola e un’altra e senza punteggiatura. E’ chiamata “bustrofedica”, perché viene paragonata al percorso che fanno i buoi quando arano.
Noi invece scriviamo da sinistra a destra e andiamo a capo appena finita la riga.
L’alfabeto che i Veneti usavano l’avevano mutuato dagli Etruschi, adattandolo alla loro lingua che non era però quella degli Etruschi. Dovettero aggiungere , ad esempio la lettera “o” che gli Etruschi non avevano.

Abbiamo detto che le scritte più antiche erano su lamine di bronzo o su oggetti di ceramica e che quelle più recenti erano su lapidi, cioè su pietra, e il materiale lapideo ci parla del lento abbandono da parte dei Veneti della loro lingua nativa per adottare il latino, la lingua degli alleati-dominatori romani. Lì scopriamo che le più antiche iscrizioni erano rigorosamente in lingua e caratteri venetici; successivamente cominceranno ad apparire iscrizioni a caratteri latini, ma in lingua venetica. Nelle più vicine a noi, lingua e scrittura sono esclusivamente latine: esse ci indicano che i nostri progenitori, oltre che l’indipendenza politica, avevano ormai perso un altro tesoro importante: la propria lingua.

Nelle parlate attuali è rimasto qualcosa dell’antica lingua dei nostri antenati Paleoveneti?

Molti studiosi ritengono che vi si possa far risalire l’uso dell’interdentale, cioè di quel suono che si ottiene mettendo la lingua fra i denti e che è presente in termini come zhuc (zucca), zhavàta (ciabatta), zhavariàr (vaneggiare), zhiésa (siepe), ecc . Ora esso appare relegato, anche nel Trevigiano, a qualche zona periferica, quasi ovunque sostituito dalla “esse sorda”, perché contrassegnato da una connotazione negativa: mantenerlo dà l’impressione di essere grezzi e retrogradi. Eppure è usato in tutta tranquillità in lingue straniere come l’inglese (thing, think, three, ecc.. ) o in spagnolo (cabeza, corazon, cerbeza,ecc.).
Si fanno risalire al substrato paleoveneto anche i nomi di certe città, che hanno una caratteristica in comune: sono parole proparossitone o sdrucciole, cioè hanno l’accento sulla terzultima sillaba, come ad esempio Asolo, Abano, Enego, Padova.
Bisogna sapere che i nomi di luogo (topònimi) sono quelli che meglio resistono alla prova del tempo e di rado vengono sostituiti radicalmente: al massimo possono subire qualche modificazione in correlazione con l’evolversi delle abitudini linguistiche dei parlanti. Così, ad esempio l’antica Acelum si è evoluta in Asolo attraverso vari passaggi che lo studioso Luigi Melchiori ha così individuato: Àcelum/Àcelo>Àselo>Àslo<Àsolo1.

L’alfabeto italiano e quello veneto attuale.

Alla scuola elementare ci avevano insegnato che l’alfabeto italiano era composto di 21 lettere, dalla “a” alla “zeta”. Ora se ne aggiungono normalmente altre tre: la “J”, La “X” e la “Y”, che servono di solito per la trascrizione di parole straniere, anche se la “j” veniva già usata un tempo per indicare la i consonantica in parole come jeri, vassoio/ vassoj, frantojo/frantoj, gioja ecc.
Per venire a noi. Nelle nostre parlate venete ci sono dei suoni o fonemi che non hanno riscontro nella lingua italiana. Chi ha il gusto di scrivere in dialetto o di trascrivere, sempre in dialetto, antichi detti, racconti o altro si trova in difficoltà di fronte a questo scoglio. Come regolarsi? La Giunta regionale del Veneto, nell’intento di metter ordine rispetto a questo problema, ha nominato nel 1994 una commissione scientifica coordinata dal prof. Manlio Cortelazzo. Il risultato fu la realizzazione e la pubblicazione nel 1995 del manuale “Grafia Veneta Unitaria”, che esamina tutte le modalità usate per rappresentare i vari fonemi o suoni da parte di chi scrive in veneto e inoltre consiglia la versione da preferire. Uno dei criteri seguiti dalla commissione era quello di “allontanarsi il meno possibile dalle consuetudini grafiche dell’italiano”. In pratica: servirsi il più possibile dei tasti presenti in una normale macchina da scrivere e, più recentemente, nella tastiera di un computer.
Tenendo conto anche delle indicazioni che sempre il prof. Cortelazzo dà a pag.53 del testo “Noi Veneti”, pubblicato nel 2001 su incarico della Regione Veneto, vi propongo di trascrivere i suoni dialettali che mancano in italiano come nello schema allegato.
Vi ho complicato la vita con le mie indicazioni? Se non le seguite alla lettera, va bene lo stesso!
A questo punto non ci resta altro che usare il nostro dialetto nativo per trascrivere i nostri ricordi (storie, detti, proverbi, filastrocche, indovinelli, tradizioni scomparse, ecc.) o per creare qualcosa di nuovo: racconti, poesie, riflessioni.

Note: 1- L. Melchiori in “La Valcavasia”, Crespano del Grappa 1983, pagg. 88-91; 2- Le due tavole sulla scrittura dei Paleoveneti sono state tratte da “Storia e leggenda dei Veneti” di Anselmi, Bellò, Turri –Tipografia Editrice Trevigiana, 1987.

TRASCRIZIONE FONETICA DI ALCUNI SUONI
CONSONANTI

interdentale sorda (quel suono che si pronuncia ponendo la lingua fra i denti e viene ormai usato solo in alcune parlate rustiche): zh (es.: pèzha, zhuc, zhiésa, ecc.).
interdentale sonora (In alcuni dialetti si conserva ancora questa d, che viene pronunciata sempre mettendo la lingua fra i denti) : dh (es.: mèdho, ròdha, cròdha, órdho, ecc. ).
“c” palatale in fine di parola: c’ (E’ ormai presente solo in alcune parlate rustiche in termini come spotac’, gric’, téc’, snaric’, fantòc’, ecc.).
“elle” cosiddetta evanescente. Cortelazzo consigliava di usare una “elle” barrata, come questa: l
Essa non esiste però neppure nei simboli particolari di Microsoft Office Word, perciò può andar bene usare una ‘e’ (come ad es. in baear, baeanzha) oppure mettere ‘lh’ (balhar, balhanzha). Se poi si mette una “elle” normale, non è una tragedia.
La s fra vocali viene sentita dai Veneti come sonora: césa, morósa, griso,ecc. In altre posizioni, si può mettere un piccolo segno sopra, così: s (v. salo, orso,garas). Si trova tra i simboli di Word,mentre non si trova “s” con puntino sopra, suggerita da Cortelazzo.).
La x veniva usata, e qualcuno la usa ancora, per indicare la “s” sonora soprattutto nella terza persona della forma dialettale del verbo essere: el xé, la xé, i xé, le xé.
s sorda fra vocali. Anche se nei dialetti veneti non esiste la doppia, è opportuno usare -ss- per indicare la s sorda fra vocali; es.: spessegar, còssa, tassa, ecc.
s-c In termini come vis-cio, s-ciao,s-césa, s-cèt, s-ciantizh, ecc., è opportuno separare con una lineetta la s dalla c, perché altrimenti si avrebbe la “sc” di sciame, sciocco, scivolare, che nei dialetti veneti non esiste.

GLI ACCENTI

Se le parole finiscono in consonante di solito non serve mettere l’accento, perché si tratta quasi sempre di parole tronche, cioè si calca la voce sulla sillaba finale (es: magnar, cosir, vassor, ecc.). E’ opportuno metterlo solo se la parola finisce in consonante, ma si calca la voce in altra posizione, cioè sulla penultima o sulla terzultima sillaba, come in làres, ìndes , àmol, tèrmen, , ecc.
Nelle parole che finiscono in vocale non serve mettere l’accento, se la voce calca sulla penultima sillaba; si potrebbe metterlo, se l’accento casca sulla terzultima come in : fémena, òstrega, ètego, ànara/àrena, pèrtega ecc.

VOCALI APERTE E CHIUSE

In posizione tonica, cioè quando vi casca l’accento, distinguiamo tra e ed o aperte e ed o chiuse:
E aperta (accento grave): è, come in spècio, vècio, mèio, madègo, ecc. La si trova nella tastiera del computer.
E chiusa (accento acuto): é, come in récia, técia, fémena, aséo, ecc. Anche questa la si trova nella tastiera del computer.
O aperta (accento grave): ò, come in mòro, tòro, bròsa, stròpa, ecc. C’è nella tastiera.
O chiusa (accento acuto): ó, come in da lóndi, stracantón, lónc/lóngo ,lóra, strucón, ecc. Non lo si trova nella tastiera del computer, ma tra i simboli.
Regola che vale per arrivare a ‘simboli’: chi ha “Word 2007” o “Word 2010” deve cliccare su ‘inserisci’, quindi cliccare su “O Simbolo”. Entrato lì, trova ciò che gli serve fra i tanti simboli presenti.

articolo di Daniele Cunial per la rivista dell’Associazione Trevisani nel Mondo

Daniele Cunial, nato a Possagno nel 1946, si è laureato in lettere a Padova con il prof. Manlio Cortelazzo, docente di dialettologia, con una tesi su “La terminologia veneta della fornace”. E’ stato per lunghi anni docente e dirigente scolastico in Istituti di Istruzione Secondaria di primo e di Secondo Grado. Si è sempre interessato e continua a interessarsi di questioni linguistiche, nonché delle parlate e delle tradizioni venete, in particolare di quelle della Pedemontana del Grappa, sulle quali ha pubblicato vari contributi.

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La situla figurata di Montebelluna

Museo Archeologico di Este

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